Dall'amore per la cultura hip-hop alle ispirazioni oltreoceano, Ciro Buccolieri, CEO e co-fondatore di Thaurus, ci racconta il suo viaggio nel rap game. Con un background che spazia dalle influenze di Roc Nation e Rap-A-Lot alle sfide e vittorie nel panorama musicale italiano.
Abbiamo scelto di trascrivere integralmente la nostra chiacchierata, senza filtri né interventi, per far trasparire l'essenza del messaggio e mantenere l'autenticità delle parole di Ciro.
Puoi raccontarci se c’è un momento specifico in cui hai capito che il rap sarebbe diventato il tuo percorso di vita?
Non c’è un momento specifico, diciamo che è stato graduale, un flirt che è arrivato quando ero molto piccolo, perché vedevo in questo tipo di sound, in un certo tipo di attitudine, in un certo tipo di estetica, la risposta a tutto quello che mi girava attorno.
Quando cresci in un quartiere o in un paese, io penso che la periferia del mondo si assomigli un po' tutta, con le dovute differenze sociali, economiche, contestuali, ambientali. Però diciamo che il sud del mondo, si assomiglia un po' tutto. Io sono cresciuto in un periodo storico in cui non c'erano tanti modelli di riferimento positivi. Nel posto dove sono cresciuto io, non c'era il ragazzo che ce l'aveva fatta, non c'era il calciatore, non c'era l'amico che giocava in Serie A, non c'era quello che era riuscito in qualcosa. I modelli di riferimento che avevi erano i modelli sbagliati: chi aveva i soldi in tasca, la bella fidanzata, la macchina. Era gente che comunque guadagnava i soldi in mezzo alla strada, gente che vedevi vicino a te e che di conseguenza prendevi come modelli di riferimento vincenti, perché un ragazzino vuole confrontarsi con un modello vincente.
E qui ci metto tutta una serie di cazzate nella mia giovanissima infanzia. La cosa che mi ha molto colpito della cultura hip hop e del rap in generale è che, quando guardavo i videoclip, quando guardavo i contenuti di gente che faceva parte di questo ambiente in America, si assomigliava molto a quello che vedevo io quotidianamente. Solo che questi ottenevano queste cose con la musica, raccontando quello che vivevano, raccontando la loro storia, e c'era tutto un sistema che girava intorno. Quindi mi sono subito innamorato delle figure dietro le quinte. Cioè, c'era il rapper, c'era l'artista che chiaramente seguivi perché ti piaceva la sua musica, ti piaceva la sua narrazione, ti piaceva quello che raccontava, però io mi sono innamorato di tutte quelle figure imprenditoriali che giravano intorno all'industria e che erano figure completamente diverse dall'imprenditore a cui ero abituato a confrontarmi in Italia.
Sai, il classico imprenditore giacca e cravatta che ha studiato alla Bocconi. Invece no, gente che veniva dalla strada, che faceva business come ero abituato a farlo io, però lo faceva in quell'ambiente lì, mantenendo le sue radici, mantenendo la sua estetica, mantenendo il suo modo di parlare. Non doveva uniformarsi a quello che era lo status quo richiesto per avere quel ruolo. E questo mi ha colpito tantissimo e mi sono innamorato di questo tipo di mondo. Mi sono detto: voglio diventare così, voglio diventare uno che fa business rimanendo sé stesso.
Queste realtà erano innanzitutto discografiche, ma poi imparando e conoscendo c'erano management, agenzie, insomma realtà che erano un po' dietro le quinte. Mi sono innamorato di tutto il loro immaginario, partendo dai loghi che, secondo me, erano fighissimi. Per me è sempre stato più figo avere la maglietta Death Row, la maglietta Bad Boy o la maglietta Roc-A-Fella piuttosto che la maglia dell'artista. Proprio partendo dal fatto che ti arriva visivamente, esteticamente.
Poi mi affascinava il fatto che questo business, questa musica, fosse trattata e gestita da gente che faceva parte di questa cultura. Su questo sono molto talebano, nel senso che, per carità, siamo aperti a 360° in quello che facciamo, collaboriamo con mille realtà diverse, ovviamente non tutti hanno il nostro background o vengono da dove veniamo noi. Non per forza ognuno di noi ha la sua storia, però chi è legato a questo mondo, perché il rap prima di essere un business è una cultura, io lo rispetto profondamente. Anche con persone con cui magari non vado d'accordo, con cui non abbiamo tante affinità, però rispetto il loro percorso se viene da questa cosa, chi è cresciuto e si è fatto da solo, chi viene da questo ambiente, rispetta questa musica, conosce la storia di questa musica. Perché solo così puoi dare anche ai più giovani una direzione e dei valori per andare avanti e non farlo diventare esclusivamente un business. Però per me è molto importante, è un legame molto forte, secondo me è giusto che chi si occupa di questa cultura la capisca. Io non mi sognerei mai di produrre un disco metal per una questione di rispetto di chi è innamorato di quella roba e lo fa da tanto tempo e capisce quella cultura. Probabilmente non avrei neanche i codici per decifrare e comprendere appieno quell'estetica, quella musica, quella narrazione.
È solo così che le cose possono continuare a migliorare, possono continuare ad andare nella direzione giusta. È facile, in un momento in cui finalmente gira tanto business e ci sono tante economie intorno a questa cosa, che si avvicini tanta gente solo per un mero spirito imprenditoriale. Non c'è niente di sbagliato in questo, ma io credo che le cose che riescono davvero, e ne sono esempio tutte le realtà forti in Italia, oltre a Thaurus, sono quelle fatte da gente che ha amore per questa cultura. Se vedi, i ruoli predominanti in questo contesto in Italia, a livello di strutture che funzionano, sono fortemente legati alla cultura e hanno quantomeno un background che affonda le radici in essa.
Hai parlato spesso dell'importanza di lasciare un'eredità (Legacy). Quali pensi sia l'eredità più importante che stai costruendo con Thaurus?
È un concetto fondamentale, una parola che mi ha sempre fatto impazzire perché è un po' il sottotesto della missione di quello che facciamo come Thaurus e di quello che faccio anche personalmente. Il mio discorso parte dal fatto che, quando ero ragazzino, mi ricollego a quello che dicevamo prima, non c'erano modelli positivi nel quartiere intorno dove sono cresciuto, ma poi anche successivamente non c'erano modelli imprenditoriali o persone che ti lasciavano qualcosa, una strada da seguire. Ce la siamo andati a cercare da soli, facendo errori, provando mille lavori, ma mantenendo sempre intatta la passione per questo tipo di musica, per questo tipo di business, con la speranza che prima o poi sarebbe diventato rilevante e avrebbe avuto importanza anche economica.
Senza fare retorica, quello che mi auguro e spero, non so se ci stiamo riuscendo, ma quello che mi piacerebbe fare è che Thaurus diventi un modello di riferimento per tante generazioni future, che abbiano finalmente un punto di riferimento su come si può costruire un business sano rimanendo fedeli alla propria passione, costruendo qualcosa e cercando di fare da ponte per le generazioni future. Ci sono state realtà che hanno fatto questo prima di noi, dalle quali ho imparato tanto. Esperienze editoriali come Aelle, che in un periodo storico in cui non c'era Internet, non c'era niente, hanno lasciato tantissimo. Per me era importante poter andare in edicola, ordinare quel giornale, sapere che arrivava e avere uno spaccato di quello che succedeva in questo mondo.
Ci sono stati professionisti e colleghi prima di noi che hanno iniziato a fare questa cosa. Noi siamo stati la prima ondata di manager, etichette, booking di gente che veniva da questo mondo e si è potuta affacciare finalmente al mondo del mercato mainstream, venendo però da un percorso totalmente underground, dai centri sociali, dalle serate organizzate per pura passione. Prima il business era unicamente circoscritto alla dimensione live degli artisti, non esistevano le radio che ci consideravano. È stato un periodo storico in cui, l'ho detto tante volte, chi aveva i contenitori decideva le nuove tendenze.
A livello di artisti e di ragazzi che lavorano con noi, il nostro obiettivo è poter essere quello di cui avremmo avuto bisogno quando avevamo 15-20 anni. Questa è la cosa più bella del mondo per me. Credo che, sai, c'è quella frase che dice: "Ispirare un'altra persona è la cosa più nobile che un uomo possa fare sulla faccia della terra". Ora, senza presunzione, in maniera molto umile, non so se riesco a ispirare qualcuno, se sarò d'ispirazione io con quello che facciamo con Thaurus per qualcuno. Però, la mia speranza è che sia così. La mia speranza è che possiamo essere un modello di riferimento per qualcuno che possa dire: "Posso fare anch'io questo, voglio fare anch'io questo".
Qual è stata l'importanza del rap nella tua vita e come ha influenzato la creazione di opportunità professionali nel settore musicale?
Tutto quello che era legato al mondo del rap è sempre stato un'esigenza più che un business: la necessità di stampare un mixtape, di distribuirlo, di organizzare una serata per chiamare un artista americano, di organizzare una serata per far suonare i tuoi amici italiani che spaccavano ma non avevano vetrine. Era perché non c’erano posti dove andare, dovevi crearli tu, altrimenti non c'era il locale che ti chiamava e ti pagava il cachet. Tutte le figure professionali che si sono generate dopo, che per me sono una cosa stupenda, sono una benedizione per tantissimi ragazzi che adesso possono fare il tour manager, il fotografo, il videomaker, il sound designer, il fonico. Ci sono tantissimi posti di lavoro, banalmente, che sono stati creati da questa cosa e che tolgono i ragazzi realmente dalle strade.
Quando si giudica la cultura hip-hop, il rap, come negativo, come modello di riferimento sbagliato, lo fa chi non ha evidentemente i mezzi per decifrare quello che stanno facendo, perché il rap è una fotografia della realtà. Se la realtà è una merda, non è colpa delle canzoni che la raccontano. Se succedono cose brutte in quartiere, non è perché c'è il ragazzo che istiga gli altri a farlo, lo stai solo fotografando. Anzi, stai permettendo a tante persone di trovare un lavoro onesto e, se sono bravi, anche di costruire un percorso di carriera. Poi non è per tutti. C'è anche questa retorica del dire che basta impegnarsi e le cose si ottengono: non è esattamente così. Ci vuole una predisposizione naturale, ci vogliono le capacità. Di sicuro il talento ti dà la possibilità di avere un'occasione, poi la testa, la disciplina, la voglia di spaccare ti dà la possibilità di avere una carriera, che sono due cose completamente diverse. E questo vale che tu sia un rapper o che tu voglia fare il manager, il DJ, il fonico, il grafico, il videomaker, qualunque cosa.
Cosa cerchi quando firmi un nuovo artista? Quali caratteristiche devono avere per entrare a far parte della famiglia Thaurus?
Allora, ti confiderò una cosa. Io non cerco mai un nuovo artista nel senso che, in maniera molto sincera, sono talmente pieno di lavoro che ogni volta mi ripropongo di dire basta. Cioè, lavoriamo bene con quello che abbiamo, con i primi progetti che abbiamo, cerchiamo di non aggiungerne altri perché non mi piace essere troppo sovraccarico di lavoro. Credo che, affinché una cosa funzioni, per quanto siamo in tanti, per quanto ho dei soci splendidi, per quanto abbiamo un sacco di collaboratori super validi, c'è bisogno di dare la giusta attenzione ai progetti se vuoi che crescano in un determinato modo. È come se tu hai una pianta in giardino: se non la innaffi, la trascuri, non la esponi alle giuste ore di luce, la pianta andrà a morire, non diventerà forte.
Delle volte, però, accade che gli artisti, cioè, accadono delle cose per cui non puoi tirarti indietro. Trovi qualcuno che ha un talento che ti appassiona talmente tanto, ha unicità, o ha qualcosa che non hai visto in nessun altro. Fondamentalmente, quello che mi interessa, quello che mi colpisce, è l'identità. Cerco sempre qualcosa di diverso dagli altri perché, sai, nella musica in generale, specialmente adesso dove c'è una mostruosa tendenza a uniformarsi, se tu vedi, i ragazzi sono tutti vestiti uguali, ascoltano più o meno tutti la stessa roba, il che non è necessariamente un male perché, rispetto alle nostre generazioni, hanno molti meno preconcetti. Nel senso, noi eravamo molto più settoriali: chi ascoltava rap, ascoltava rap; chi ascoltava metal, ascoltava metal; chi andava a ballare house, andava a ballare house.
La mia fortuna è stata quella di crescere in un posto piccolo, un posto di 40.000 abitanti, dove comunque in compagnia, con la gente con cui stavi, c'era chi ascoltava house, chi andava a ballare e ci andavi anche tu, anche se ti piaceva il rap. C'era il metallaro che ti faceva sentire i dischi, e tutto questo mi ha dato apertura mentale da questo punto di vista. Ma adesso è molto più così, è molto più trasversale: nelle playlist di un ragazzo ci trovi di tutto, non è più legato fortemente ed esclusivamente a un genere. Però, ricollegandomi a quello che dicevo prima, c'è questa tendenza a uniformarsi anche per gli artisti. C'è un filone che va, tutti cercano di cavalcare quello. Questo fatto che i numeri siano visibili a tutti ha un impatto tremendo sugli artisti, perché prima un artista si preoccupava di fare un disco che spacca, quello che gli interessava era che il sentire comune, con la piccola fetta di pubblico a cui quel disco sarebbe arrivato, fosse "Cazzo, che disco ha fatto questo!" Adesso invece c'è una tendenza molto più sviluppata a guardare i numeri. Quindi: "Quello è primo in classifica, sta funzionando questa cosa, devo farla anch'io."
In un mondo in cui tutto cerca di assomigliare a quello che è davanti a lui in classifica, si perde un po' di identità. Quindi, quello che mi interessa, quello che mi colpisce, è l'identità. Quando vedi un ragazzo che fa qualcosa e la fa in modo unico, bastano davvero 30 secondi, a volte anche 10, di una canzone per identificarlo, per capire il suo viaggio, per capire chi è. Questo mi interessa. Poi, da qui a diventare grandi, ce ne passa, però fondamentalmente la prima cosa che guardo è l’identità.
Cosa significa essere un Hustler nel 2024?
Sai, per me essere un Hustler nel 2024 non è così diverso da esserlo nel '97. Un Hustler è una mentalità che può avere mille derivazioni. Anche il lattaio può essere un Hustler, cioè è come ti approcci a questa tipologia di cosa. Un Hustler è lavorare duro, prendere quello che guadagni o quello che tiri fuori da questo e reinvestirlo per far crescere il tuo cerchio. Negli Stati Uniti dicono "flipping", cioè quello che tu prendi lo reinvesti per far crescere il tuo giro. E questo vale per tutti i ragazzi che non hanno avuto grosse opportunità e se le sono andate a cercare, magari facendo delle cose che erano strumentali per poterne fare delle altre.
Uno che vuole fare il fonico si sveglia la mattina e va magari a consegnare i giornali, mette i soldi da parte e invece di andare a ballare con quei soldi si compra le attrezzature. Per me un Hustler è questo, e va a 360°, nel senso che la Hustler Culture ha influenzato totalmente la mia vita. Non è una questione di etichetta, mi sono sempre sentito così, anche prima di sapere che cosa volesse dire Hustler. Di conseguenza, secondo me, lo spirito di volersi migliorare e di voler uscire fuori dalla situazione in cui sei o di scalare i gradini sociali che la vita ti mette davanti è ciò che definisce un Hustler.
Il rap non è solo musica. Puoi parlarci di come il rap si estende oltre la musica e come questo lo rende così potente?
La cosa figa del rap è che non è un genere musicale. Alla gente molto spesso sfugge questo. Non è un genere musicale, è una mentalità, un'attitudine, è un modo di vedere la vita, è un modo di comportarsi, un modo di vestire. È una cosa che ha 2000 derivazioni che sono estetiche, che sono nella moda, che sono nel lifestyle. È per questo che, secondo me, doveva per forza essere vincente anche qua. C'è stato un periodo storico lungo in cui non c'era spazio per quello che facevamo noi ed era una cosa relegata a un numero circoscritto di pazzi innamorati di questa cultura. Per la gente era assurdo, non era rilevante, ma a un certo punto nella mia vita ero sicuro che poi sarebbe arrivato anche qui quello che è successo in maniera molto naturale in Francia, in Inghilterra, in Germania, in tanti paesi dell'Europa e negli Stati Uniti ancora molto prima. Perché questa roba qui non è semplicemente musica. Al di là di quello che è in classifica, che sia rap, trap, drill, più latino o meno latino, quello che conta poi è il sottotesto, quello che conta è l'atteggiamento che è comune. Cioè, un artista può anche fare un singolo pop, ma se la sua mentalità e il suo background sono quelli, rimarranno quelli anche nel pop e in qualunque altro genere.
Perché il rap è considerato un linguaggio universale e come pensi che riesca a superare le barriere culturali e sociali?
Sì, perché parla in maniera diretta, no? E banalmente anche i mezzi per farlo. Per fare un pezzo rock devi saper suonare la chitarra, devi saper suonare la batteria, devi avere delle conoscenze anche tecniche. È come la differenza che c'è tra saper giocare a pallone e giocare a tennis: per giocare a tennis devi avere la racchetta, qualcuno che ti porti in un campo, non basta un piazzale. Il rap è come avere un piazzale sotto casa e una palla di stracci, nel senso che puoi diventare bravo anche facendo quello. È lo stesso discorso del basket, banalmente, negli Stati Uniti: c'è un canestro dovunque, in ogni angolo; quindi, basta avere una palla che costa 8 dollari e inizi da lì. Chiunque può lavorare sodo su sé stesso, e quella è la forza del rap che lo differenzia da tutti gli altri tipi di musica.
Il rap è un linguaggio molto facile. Molto spesso per questo è sottostimato. Molto spesso, quando si parla di liricisti, la gente cerca il contenuto, ma il liricista forte principalmente forma. Uno può scrivere da Dio anche parlando di quel divano lì, non so se rendo. Ci sono delle mancanze culturali che purtroppo in Italia abbiamo e che difficilmente verranno colmate, perché ci sono dei mondi che non si parlano. C'è il mondo dei media tradizionali generalisti, la TV, i giornali italiani, che si approcciano a questa cosa solo esclusivamente perché il rap ora fa numeri, funziona, ma non ha capito per niente di che stiamo parlando, non capisce questa cultura.
Ti immaginavi che il rap arrivasse qui?
Se dobbiamo parlare di rap industry, non mi sarei mai aspettato che l'industria del rap sarebbe arrivata dove è arrivata oggi, però l'ho sempre sperato. Non ho mai perso la speranza, non c'è mai stato un momento in cui ho detto che questa cosa non ce la farà. Ho sempre visualizzato i muri pieni di dischi di platino, gli stadi pieni per un concerto rap e le classifiche dominate dai dischi rap. Facevo fatica a credere che tutto questo potesse avvenire, è come quando un ragazzo gioca nel campetto e spera di giocare in Serie A o in nazionale: magari non ci credi che ce la farai, però ci speri.
Si parla spesso che questa cultura rispetto ai pionieri si sia commercializzata divenendo per tutti?
Io credo che chi fa musica cerchi di parlare innanzitutto ai propri simili e poi a un pubblico quanto più vasto possibile. È sbagliato dire che si era contenti quando non c'era una lira, quando non si guadagnava. Artisti molto validi dovevano magari cercarsi un lavoro per potersi sostenere e mantenere la loro passione. Questa è una delle cose che crea più frustrazioni possibili. La scena in Italia ha fatto tanti errori dagli anni '90 ad oggi, però non sono sicuramente io la persona più giusta per raccontarli perché ero molto piccolo. Comunque, se ha fatto errori, li ha fatti in buona fede perché gli strumenti e i mezzi di conoscenza che avevano al tempo erano quelli.
Io penso che si debba sempre capire che non c'è niente di male a diventare giganti. Bisogna capire cosa lasci per diventare gigante. Se riesci a rimanere coerente con quello che sei, va benissimo, devi essere contento, farti un applauso e hai spaccato tutto. Ma se cerchi di stare in classifica e vai totalmente a snaturare quello che sei, quello che ti piace, allora c'è qualcosa di sbagliato perché non sarai più reale con te stesso. Dopodiché ti assicuro che anche il tuo pubblico se ne accorgerà.